Questa sequenza di testo, che occupa il primo posto nella dispositio della mia recensione, sul piano cronologico è in realtà l'ultima che ho scritto. Il suo scopo è soltanto quello di avvertire il lettore che la stesura di quanto scritto mi è appena costata 5 ore di lavoro che mi hanno abbastanza sfiancato. Di conseguenza, per quanto dopo averlo riletto mi sembri abbastanza scorrevole, non mi sento di escludere la presenza di imperfezioni nella mia sintassi. Il mio dubbio, inoltre, è corroborato dalla consapevolezza che lo stile col quale ho scritto tutte le mie riflessioni è quello tipico di un trattato o di un saggio e di conseguenza non lascia troppo spazio a fronzoli ed intarsiature letterarie. Vi ringrazio dell'attenzione e spero che il commento possa piacervi.
Ogni volta volta che mi si chiede di scrivere la recensione di un film, lo stesso dubbio amletico si ripresenta uguale: cosa devo recensire del film? Devo parlare della regia? Per certi versi potrebbe essere la scelta migliore; farei di certo un figurone ad analizzare tutti gli stilemi registici di Kubrick, e citare quelle opere più recenti ove si è propagato il riverbero dei suddetti stilemi mi farebbe apparire ancora più brillante. Ma parlare solo di regia è davvero sufficiente? Come potrà essere completa una recensione che ignori la vera sostanza di una pellicola (e aggiungerei, di una qualsiasi opera d'arte) quale il suo significato?
Penso infatti che, per quanto non si possa sorvolare sulla forma con cui ci viene presentato un prodotto artistico, sarebbe terribilmente riduttivo parlarne solo in funzione della forma, per questa ragione ho scelto di dividere questa recensione in 2 parti: la prima, che chiameremo RIFLESSIONI SULLO STILE, tratterà degli interessanti ma prosaici tecnicismi sui quali Kubrick ha scelto di costruire la sua narrativa, la seconda invece, RIFLESSIONI SUL SIGNIFICATO, si occuperà di parlare dell'interpretazione da me data della storia di Barry Lyndon, questa, delle due facce della medaglia, è di certo quella più soggettiva, imprecisa, incomprensibile, afasica, pseudo-intellettuale e fumosa, e di conseguenza è anche ciò che incorona un mero prodotto tecnico e gli dona il titolo di "pezzo d'arte".
RIFLESSIONI SULLO STILE
Purtroppo in vita mia ho visto ben pochi film del maestro Kubrick, di conseguenza non riesco ancora ad individuare i tratti tipici della sua regia. Di contro, ho visto molti film dei registi a lui successivi, nei quali si ritrovano delle (a volte evidentissime) citazioni proprio a Barry Lyndon.
Il ritmo lento ed il carattere esacerbatamente solenne delle scene sull'alta società saranno ripresi in un'altra pietra miliare della storia del cinema, quale è L'Ultimo Imperatore di Bernardo Bertolucci, film che, uscendo a 12 anni di distanza dal suo antesignano, ne ricalca in pieno anche la trama della seconda parte, raccontando la rovinosa caduta di chi passò dall'essere imperatore ad umile ed anonimo cittadino.
I movimenti ultra-rigidi della macchina da presa sono destinati a diventare uno degli stilemi caratteristici dei lavori di Wes Anderson mentre le inquadrature a campo largo seguitate da uno zoom veloce saranno tipiche di Quentin Tarantino (il quale in Django Unchained le ripeterà così tante volte da trasformarle in una sorta di inside joke tra lui e lo spettatore). Tra le citazioni registiche va annoverata poi anche quella di Martin Scorsese, che nel 2015 racconterà nel suo "The Wolf Of Wall Street" - seppur in maniera totalmente rivisitata - la stessa parabola umana compiuta in Barry Lyndon.
Non saranno comunque solo i registi a prendere spunto da quest'opera, chi infatti avrà letto Uomini e Topi di John Stainbeck si sarà di certo reso conto di come il ruolo (geniale) del racconto della fattoria con le galline sia chiaramente ripreso da quello della storia dell'irruzione dei 23 inglesi all'interno del forte francese, che, ovviamente, appartiene alle "Memorie di Barry Lyndon" di William Thackeray, dal quale è tratto il nostro film.
Stanley Kubrick però, anche in questa sua massima, è non solo maestro dei posteri ma anche apprendista dei predecessori, la fotografia delle prime scene di gioco d'azzardo infatti è di chiara ispirazione caravaggesca. Invito tutti voi a cercare su internet una foto de "i Bari" di Michelangelo per notare con i vostri stessi occhi come illuminazione ed inquadratura siano stati emulati quasi pedissequamente.
RIFLESSIONI SUL SIGNIFICATO
Se parlando dello stile registico abbiamo osservato come le trovate di Kubrick fossero innovative e siano state più e più volte riprese dai postumi, bisogna anche evidenziare come l'archetipo Barry Lyndon non fosse certo inedito nel cinematografo. Il nostro protagonista è infatti da collocarsi nel girone degli impulsivi, accanto alla Monica di Ingmar Bergman e al Michel Poiccard di Jean-Luc Godard.
Ognuno dei punti di svolta nella vita di Barry è dettato da un atto puramente istintuale: la sua avventura nasce da un bicchiere di vino scagliato contro il pretendente di sua cugina, continua con una diserzione ed una confessione fatta ad uno sconosciuto e conosce l'inizio del declivio con una rissa nel pieno di un concerto. Perché, dunque, Kubrick sceglie un soggetto già così ben noto al mondo del grande schermo, è forse questa una sorta di cover dei grandi capolavori del passato? Naturalmente no. Ogni grande regista infatti, quando riprende il filo di un discorso già trattato da un collega, lo fa con un obiettivo ben chiaro, quello di aggiungere quel suo personale tassello, di coprire un buco rimasto senza risposta.
Ciò di cui ci parla Kubrick, in questo caso, è la fortuna.
Quando la dea bendata soffia verso la retta via la vita di Barry va a gonfie vele, ma al variare del vento, nulla sembra più trovare il verso giusto. Tenete a mente le parole appena pronunciate, perché tra poco ci torneranno molto utili.
Per il momento però, è necessario un breve stacco filosofico.
Quando gli uomini non trovarono risposta per la folgore ne trassero che il responsabile fosse Dio, quando non compresero la peste pensarono ad una punizione divina e tuttora, che non trovano il significato della loro esistenza, guardano alla vita terrena come un campo di prova in attesa di quella eterna. Dal punto di vista di un laico ovviamente fulmini, pestilenze e natali non sono altro che eventi casuali, e sottolineo casuali - dettati dal caso, e quel Dio di cui parlano i religiosi si riduce ad una banale concatenazione di eventi sconosciuti. In ultimo, quindi, e spero di aver reso il ragionamento abbastanza chiaro da non aver fatto perdere al lettore il filo del discorso, Dio corrisponde a ciò che non si conosce, poiché la stessa casualità non è altro che l'esito deterministico di fatti ed eventi che non si conoscono. È proprio questo il fondamento del celebre aforisma junghiano "Non credo che Dio esista, lo so", come si può infatti dubitare dell'esistenza dell'ignoto? Secondo questo principio l'unico modo per "uccidere Dio" sarebbe, letteralmente, raggiungere uno stato di onniscienza (o quantomeno un'onniscienza di presente e passato), che ovviamente entra in contrasto con la natura finita degli esseri umani. Di conseguenza, e lo dico da convinto ateo, il Dio junghiano non ha alternative se non quella di esistere.
Concluso questo trafiletto filosofico è quindi necessario tornare al discorso iniziale per chiudere il nostro cerchio.
Vi ricordate ciò che vi ho detto di tenere bene a mente? Probabilmente no, quindi vi schiarisco un po' la memoria. Citando un segmento di questo stesso testo che vi sto leggendo ora, dicevo che "Quando la dea bendata soffia verso la retta via la vita di Barry va a gonfie vele, ma al variare del vento, nulla sembra più trovare il verso giusto", alla luce delle osservazioni che abbiamo appena fatto, non trovate anche voi che quella che prima ho chiamato Dea bendata, non sia in realtà solo una Dea, anzi, per meglio dire, non credete che sia Dio?
Ovviamente ogni attività ermeneutica, inclusa la presente, corre sempre il rischio di cadere nella sovra-interpretazione e nessuno può davvero avere garanzia che la propria esegesi sia quella vincente, esistono solo indizi, indizi sparpagliati un po' ovunque, che spesso, a fine visione, abbiamo già dimenticato. Chi di voi, ad esempio, ricorda la frase conclusiva della litania salmodiata dal prete durante la marcia funebre? Quella frase, che chiude quella seguenza di scene, recita testuali parole: "Dio da e Dio toglie"
Quello stesso personaggio che Godard aveva magistralmente fatto interagire con la morte sotto il nome di Michel Poiccard, con Kubrick trascorre la sua esistenza danzando e rincorrendosi con l'unica vera forza che possa decidere della vita di un impulsivo: Dio.
"danzare e rincorrersi con Dio" che frase ad effetto! Sarebbe stato un gran bel testo se l'avessi concluso così, purtroppo però, nonostante il tanto lambiccarsi, penso sia rimasta ancora una chiosa meritevole di venir scritta.
Vi ricordate la scena del duello finale? Anche lì il finale della nostra storia sembra affidato al lancio di una monetina e ad una pistola difettosa, ergo, sembra affidato a Dio. Sembra.
Ma è proprio lo sparo per terra che suggella, nel momento più importante della vita di Barry Lyndon, il suo definitivo abbraccio della propria natura, che lo spinge all'ultimo, rovinoso rifiuto della mezza misura.
Il proiettile sul pavimento può condurre soltanto a 2 estremi: il suo ritorno in pompa magna a capo di una famiglia nobile, ormai lenita anche dalle sue faide interne o l'esilio in povertà che Barry dovrà scontare monco di una gamba.
Ma esattamente come il suicidio di Poiccard e lo sguardo finale di Monica ("il primo piano più triste della storia" lo definì Godard, e non biasimatemi se ci cito sempre Godard, non è colpa mia se quell'uomo era un genio!), anche Barry Lyndon, come chiunque abbia rifiutato ciò che non fosse estremo, è destinato, all'estremo male.
~Francesco Nicodemi
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