Un diamante rosso, immaginate un diamante rosso: la più preziosa pietra esistente. Lasciate cadere più e più volte nel vuoto quest'oggetto tanto ricercato, quanto raro, unico. E percepite il suono generato dal contatto col suolo nel frammentarsi e deflagrare nello spazio.
Il diamante è lui: Rudin.
L'oratore che sapeva sublimare le emozioni con la parola, plasmare il pensiero con malinconico ardore.
Con impeto travolgente l'eloquio montante come il suo animo irrequieto, sapeva assorbire completamente nel vortice del suo racconto, calmo, inquieto, colmo di eterna malinconia.
Nella residenza di Lasunskaya si attende l’arrivo di un importante Barone e filosofo. Ma per un errore del tempo sarà proprio il giovane Rudin a varcare l’entrata della tenuta. Egli fin da subito manifesterà il proprio essere geniale attraverso l’eloquenza.
Nelle sue parole: meraviglia e stupore al quale nessuno poteva sottrarsi. Ben presto il suo talento seppe catturare l’attenzione di tutti: “Tutti l’ascoltavamo con profonda attenzione. Egli parlava in modo magistrale e affascinante, ma non del tutto chiaro… La stessa mancanza di chiarezza, però, conferiva una nota di attrazione al suo discorso. […] Rudin possedeva quello che forse era il segreto più grande: la musica dell’eloquenza.” Agli occhi dei presenti il suo essere mistico e perfetto era statico, congelato. Sempre più la sua vita si legherà a quella della giovane Natal’ja; entrambi si illuderanno di un sentimento d’amore destinato ad estinguersi dal principio. “Vive di altri sentimenti” e “Freddo come il ghiaccio stesso”, così sarà frainteso e malinteso. Entrambi si troveranno obbligati a separarsi.
Rudin costretto ad andarsene non rivivrà più questa realtà, che lascerà con le lacrime agli occhi non per l’amarezza della separazione ma per il pensiero dell’essere rinchiuso in una vita segnata da traversie insormontabili. Passeranno alcuni anni e i momenti vissuti in tenuta saranno solo ricordi. Non accadde più niente da quel giorno. Le sue parole rimasero destinate all’incomprensione ed egli stesso fu destinato alla propria fine senza gloria terrena.
Ritornò a vivere nell’ombra rimanendo un eterno vagabondo, fino al 26 giugno 1848 quando a Parigi un proiettile lo colpì al cuore.
Ancora oggi ascoltando il vento, il fruscio delle foglie, un rumore sordo, un diamante che cade, una lacrima dal cielo o un ramo che si spezza, possiamo percepire il suono del vuoto che sempre ha inquietato il suo essere oppresso dalla solitudine degli incompresi.
Come può la parola catturare l’animo umano? Nel 1853 Turgenev lasciò all’umanità uno dei primi e più importanti esempi letterari della narrativa russa dell’Ottocento. Ci fornisce una nuova figura: l’uomo ritenuto "superfluo", condannato ad una condizione di diversità ed autoemarginazione. Così è anche l'uomo intellettuale dei nostri tempi che possiede la capacità di affascinare il mondo a lui circostante, mediante l’arte della parola, divenendo sua stessa condanna.
Ma perché una condanna? Quelli che come Rudin sanno tutto e prevedono tutto, hanno il privilegio dell’eloquenza e soprattutto sono esseri fascinosi ma le parole non generano altro che altre parole condannate a rimanere tali in assenza di realtà.
Eppure Turgenev ci invita ad una constatazione: le loro parole non rimarranno mai fini a loro stesse se illumineranno le menti delle generazioni a venire che saranno specchio di una società umana e giusta. Rudin non è solo il personaggio di un libro, ma una condizione esistenziale, veritiera e immortale. Una scelta tra l'essere e l'apparire. Una nota stonata nel concerto della banalità ma che grida dal profondo del cuore la sua ragione d'essere.
Maria Martone
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