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Prostituzione, riflessioni

“La prostituzione in sé e per sé è un abuso del corpo di una donna. Quelle di noi che dicono questo sono accusate di semplificazioni. Ma la prostituzione è molto semplice. E se non semplifichi, non la capirai mai. Più sarai complessa, più lontano sarai dalla realtà — più sarai sicura, più sarai felice, più ti divertirai a discutere della questione della prostituzione. Nella prostituzione, nessuna donna rimane intera. È impossibile usare un corpo umano nel modo in cui i corpi delle donne sono usati nella prostituzione e avere un essere umano intero alla fine di esso, o nel mezzo di esso, o vicino all’inizio di esso. E nessuna donna diventa di nuovo intera dopo.”

La prima volta che lessi questo testo, estratto di un discorso tenuto da Andrea Dworkin, rimasi decisamente interdetta, se non turbata. Mi era stato detto che la prostituzione fosse un mezzo per riappropriarsi del proprio corpo, che fosse un “lavoro qualunque”; una visione diametralmente opposta.

Io spero vivamente che le parole sopra riportate possano determinare in chi le legge la mia medesima reazione: stupore, turbamento. Soprattutto quest’ultimo potrebbe innescare un meccanismo che, sono sicura, annienterebbe qualsiasi convinzione abbiate sulla prostituzione (che la convinzione sia il frutto di una documentazione, o di accettazione passiva di informazioni). Un processo che vi porterebbe, ve lo posso garantire, a una realtà diversa rispetto a quella inneggiata dai social. Non quella che la ritiene un “esercitare la propria libertà individuale”, ma la realtà che la vede per quello che è: una violenza. 

La prostituzione è violenza. Non esistono condizioni in cui non lo sia. E questo non lo dico io; io mi limito a fare da eco alle migliaia di donne che hanno insistito su questa semplice affermazione. 

Rientra in questa violenza anche quella fetta, sicuramente esigua, di donne che si prostituiscono “senza motivo”, “per scelta”. Sono centinaia le testimonianze che confermano ciò: persino le migliori condizioni possibili (possibilità di selezionare i “clienti”, di scegliere quanto spesso e per quanto tempo farlo) risultano essere “logoranti, alienanti”.

Il motivo va individuato nella natura stessa della prostituzione. Va vista nella sua semplicità, come ci suggerisce la Dworkin. La prostituzione è “né sesso, né lavoro”. Non è sesso perché è priva di reciprocità. Questa mancanza è “colmata” dal denaro. Le donne sono rese merce, prodotti da consumare a proprio piacimento. Non è lavoro perché viola qualsiasi principio alla base di esso: dignità, equità, condizioni sicure e igieniche.

Considerato questo, mi sembra assurda l’idea che ci si schieri ancora per la “libertà di vendere il proprio corpo”. In questo modo, non si fa nient’altro che distorcere il significato della parola libertà, in funzione di un’industria (quella del sesso) misogina e violenta. È importante per me sottolineare che l’oggetto di denigrazione e diffamazione non debbano essere le donne prostitute, bensì l’industria in sé e i suoi sostenitori. 

Gli unici a dover essere criminalizzati dovrebbero essere i “compratori di sesso”, e non le persone che si prostituiscono.


B. C. A. Luongo

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