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Le “donne di conforto”, e perché è il più grande eufemismo della Storia

1942. Yi Ok-Seon ha 14 anni, sta camminando per le familiari strade di Busan quando viene coercitivamente scaraventata in un’auto e portata a Yanji, Cina, in una comfort station. Qui è costretta ad avere rapporti sessuali con i soldati dell’esercito giapponese: quelli semplici al mattino, graduati al pomeriggio e ufficiali la sera; ogni giorno, fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Durante quegli anni, a causa di ripetute iniezioni di medicinali anti-sifilide e trattamenti a base di mercurio, diventerà sterile.

Lei è solo una delle circa 200.000 donne coreane (ma anche cinesi, taiwanesi, filippine, indonesiane e tailandesi) che la Storia chiama comfort women, donne di conforto. Un appellativo nauseante e riduttivo che maschera una realtà di rapimenti, schiavismo sessuale, miseria e fame. Una realtà che inizia nel 1932, quando il governo di Tokyo istituisce veri e propri bordelli (comfort station) per “mantenere alto il morale” del proprio esercito. Solo 5 anni dopo, in seguito al massacro di Nanchino- centinaia di donne vennero stuprate dalle forze d’invasione nipponiche- il governo ordinò una maggior diffusione delle comfort station. Così aveva arginato il problema degli stupri contro la popolazione civile dei territori occupati, che non solo ledeva la reputazione del paese, ma che determinava anche uno scomodo aumento delle malattie veneree tra gli stessi soldati.

Questa sistematica tratta si intensificò, perdurando fino al 1945. Secondo alcune testimonianze, le comfort women erano costrette ad avere rapporti con fino ai 70 uomini al giorno, anche durante le mestruazioni. Venivano sottoposte a visite mediche per verificare la presenza di malattie veneree e, nel caso ne fossero infette, erano fatte sparire. Gli altri problemi medici, tra cui le ferite provocate dalle violenze inflitte, non erano curati. Queste condizioni, unite al danno psicologico, spinsero molte al suicidio o a tentativi di fuga puniti con la morte.

Finita la guerra, le comfort station vennero gradualmente eliminate. Le atrocità di questo crimine di guerra, però, rimasero avvolte nel silenzio per diversi decenni: la propaganda giapponese faceva apparire queste donne come semplici infermiere che alleviavano le fatiche dell’esercito.

È dall’8 gennaio 1992 che ogni mercoledì molte donne coreane si ritrovano in segno di protesta  di fronte all’Ambasciata giapponese di Seoul. Ad oggi, le comfort women rimaste in vita sono poche, ma le loro storie sopravviveranno alla loro morte.

Un reale riconoscimento da parte del Giappone non è ancora avvenuto, e il paese ha declinato ogni responsabilità di quanto accaduto.

Gli anni passano, le superstiti diminuiscono, ma la memoria deve persistere. Soltanto quando il Giappone assumerà la piena responsabilità etica e legale di quell’abominio si potrà chiudere questo atroce capitolo, assicurandosi che appartenga al passato per il resto della storia dell’umanità.

B.C.A. Luongo

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