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Immagine del redattoreRedazione Sisma

Ogni mattina a Jenin


“L’amore è tutto ciò che siamo, mio caro. […] Il nostro amore non si è spento nemmeno con la morte, perché vivo nelle tue vene” sussurra Fatima in Sogno a Yussef. Cosa resta dopo essere sopravvissuti  alla morte? Cosa resta ad un uomo la cui moglie è stata uccisa insieme alla figlia ed al bambino che portava in grembo?

Cosa resta delle vite spezzate dalle bombe? Cosa resta a quella bambina che mastica ancora la polvere della propria casa crollata sulla sua mamma?

“Ogni mattina a Jenin” non è un racconto, è la storia vera di chi nasce tra i mandorli e gli ulivi, di chi mastica fichi e fuma tabacco aromatizzato alla mela e cannella, è la storia vera dei frutti della condanna all’odio, di chi non ha colpa se non quella di essere nato in Palestina.

 Amal, nipote del patriarca della famiglia Abulheja, racconta la storia della sua famiglia costretta a scappare da ‘Ain Hod nel 1949 e a rifugiarsi nel campo profughi di Jenin. È proprio qui che nasce la protagonista la cui infanzia è violata dalla guerra e dalla tragica scomparsa del fratello, rapito da un soldato israeliano. Il tempo dell’infanzia, degli amori, del matrimonio e della maternità viene scandito dai suoni delle bombe, dalla polvere delle case distrutte, dalle urla delle madri dei combattenti della resistenza, dall’odio e dalle invasioni del nemico.

È la storia di chi abita in un limbo: rifugiato in una casa d’argilla in attesa di un nuovo posto da chiamare ‘casa’.

“Sono triste per lui. Triste per quel ragazzo costretto a uccidere. Triste per i giovani traditi dai loro leader in cambio di simboli, bandiere, guerra e potere.” È la riflessione di Amal guardando negli occhi il soldato che le punta un fucile contro. Susan Abulhawa, l’autrice, non cerca colpevoli tra gli israeliani, anzi, questi ultimi sono visti con pietà perché anch’essi hanno provato morte e sofferenza. Il romanzo racconta le conseguenze dell’odio nelle vite di chi può continuare a vivere solo grazie all’amore. L’unico modo per affrontare la morte, l’odio, la distruzione, la rabbia, è amare.

Una storia attualmente vera in grado di logorare l’anima: “Le radici del nostro dolore affondano a tal punto nella perdita, che la morte ha finito per vivere con noi, come se fosse un componente della famiglia che saremmo ben contenti di evitare, ma che comunque fa parte della famiglia. La nostra rabbia è un furore che gli occidentali non possono capire. La nostra tristezza può fare piangere le pietre. E il nostro modo di amare non è diverso”.

Abulhawa racconta del suo mondo completamente diverso dal nostro, attraverso l’odore del tabacco, la visione dei frutti del potere di fare del male, il sapore della polvere delle case distrutte e delle lacrime, eppure ognuno di noi si riconosce nella sofferenza di quella bambina nata nel campo, di quel ragazzo che muore impiccato perché appartenente alla resistenza, di quella madre morta e sventrata del proprio figlio, di quel bambino cresciuto da chi ha ucciso la sua famiglia, di persone comuni accomunate dall’avere un destino piegato dai bombardamenti, dagli attacchi, dalle violenze.

“È un amore che puoi conoscere solo se hai provato la fame atroce che di notte ti rode il corpo. Un amore che puoi conoscere solo dopo che la vita ti ha salvato da una pioggia di bombe o dai proiettili che volevano attraversarti il corpo. È un amore che si tuffa nudo verso l’infinito. Verso il luogo dove vive Dio.” Ciò che Amal, raccontando la sua storia, intende trasmettere alla figlia, è che l'unico modo per affrontare la morte è amare. L’insegnamento che questo libro vuole trasmettere è la necessità per l’essere umano di consacrare la propria vita all’amore come unico modo per superare e affrontare le ingiustizie del quotidiano. Amore come unica arma contro la morte.

 

Maria Martone

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