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La realtà drammatica degli allevamenti intensivi


Gli allevamenti di tipo intensivo nascono dopo la Seconda Guerra Mondiale negli Stati Uniti, per poi diffondersi nel resto del mondo. Si tratta del risultato della cosiddetta “Rivoluzione Verde”, un’iniziativa nata per garantire alla popolazione una nutrizione completa. Ad essere incentivata, attraverso aiuti statali, fu soprattutto la produzione di cereali, in quanto alimento basilare che poteva essere prodotto da colture diverse. Anche i costi dei mangimi per gli animali divennero più vantaggiosi e gli allevatori poterono aumentare progressivamente il numero di capi di cui disponevano. Ne risultò che l’ambiente agricolo cambiò radicalmente: pascoli all’aperto fecero posto a grandi capannoni, all’interno dei quali venivano confinati gli animali che, oramai, iniziavano ad essere concepiti come mera carne. Essi nascono semplicemente per morire, preclusagli anche la possibilità di vivere degnamente.

Eppure non se ne può fare un discorso puramente moralistico, poiché l’affermazione di questa nuova modalità di allevamento ha provocato ripercussioni capillari a livello globale. Consideriamo gli effetti del processo di crescita, degli animali destinati al macello, sulla salute del consumatore: lo scopo dell’allevamento intensivo consiste nel soddisfare la grande domanda di carne del mercato globale nel minor tempo possibile, pertanto è improponibile rispettare i naturali tempi biologici. Una logica di guadagno del genere è inevitabilmente correlata a soluzioni alternative e un buon alleato è stato trovato nei farmaci.

Per produrre 1 kg di carne sono impiegati mediamente 100 mg di antibiotico. Ciò significa, per l’italiano medio, consumatore di circa 87 kg di carne ogni anno (senza considerare i consumi di prodotti ittici), ingerire involontariamente quasi 9 gr di antibiotici, equivalenti alla somministrazione di circa 4 terapie antibiotiche annuali!

Tra l’altro, assumere antibiotici senza prescrizione medica è assolutamente negativo, in quanto provoca lo sviluppo di batteri antibiotico-resistenti causa di malattie potenzialmente fatali, che possono degenerare in vere e proprie pandemie. Sono molte le teorie secondo cui il recente esempio del Sars-Cov-2 potrebbe essere la prova schiacciante dell’inefficienza di questo modello alimentare.

Un altro problema sanitario legato alla produzione animale intensiva è l’inquinamento delle acque e del cibo provocato da pesticidi e fertilizzanti. Secondo alcune stime, circa l’80% delle terre coltivabili (il 75% nell’UE) è impiegato per la coltivazione del foraggio destinato agli animali. Ovviamente anche la produzione agricola deve essere rapida ed efficiente e la quantità di pesticidi impiegata è esorbitante, senza considerare che i componenti chimici di questi ultimi si accumulano nel grasso corporeo animale.

Per quanto riguarda i fertilizzanti, ovviamente, il loro utilizzo sarebbe inutile, o almeno ridotto, se gli animali fossero lasciati liberi di vivere nei loro habitat naturali: le deiezioni prodotte sarebbero assorbite dal terreno e utilizzate per concimare. Purtroppo la realtà è ben diversa: essendo le escrezioni sature di componenti chimiche dannose, queste devono essere eliminate in altri modi, ma molto più frequentemente vengono lasciate all’aria liberando sostanze inquinanti come il protossido di azoto (NO₂), un potentissimo gas serra. Un’infrazione ancora più grave alle direttive sanitarie consiste nel riversare comunque i liquami nei terreni: composti dannosi, infatti, arrivano a contaminare persino le acque delle reti domestiche. Oggi oltre un milione di persone consuma acqua inquinata da nitrati provenienti dall’agricoltura, compresi quelli provenienti dal letame. Un’intossicazione da nitrati può provocare gravi problemi ai bambini, per la capacità di tali sostanze di legarsi all’emoglobina del sangue, e cancro allo stomaco negli adulti.

La risposta di mercato si adegua alla domanda: se adottassimo un tipo di alimentazione diverso, puntando sulla qualità piuttosto che sulla quantità, il miglioramento sarebbe evidente. Se l’uomo ha un dono è sicuramente quello di poter scegliere. Siamo carnefici ma soprattutto vittime…Ne vale la pena? Abbiamo ancora la possibilità di cambiare le cose, basta un piccolo sacrificio. Di tutti.

Di Libera Caramiello e Mattia Carlotto


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