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  • Immagine del redattoreRedazione Sisma

La Primavera di Praga

Correva l’anno 1968, l’Europa all’ epoca, in netta ripresa rispetto al secondo dopoguerra, era divisa in due blocchi, il patto Atlantico (NATO), filo americano, e il patto di Varsavia, filo sovietico. In questo periodo, però, sembra spirare sempre più forte il vento del cambiamento: grandi masse si organizzano spontaneamente per protestare contro gli apparati di potere dominanti e le loro ideologie.

Dopo la Seconda guerra mondiale le potenze vincitrici decisero di dividere il vecchio continente e la sorte dei paesi dell’Europa orientale fu quella di diventare “stati fantoccio” dell’URSS, sorte che toccò anche alla Cecoslovacchia, invasa dai tedeschi nel 1938.

Ciò che differenziava principalmente però le repubbliche socialiste del patto di Varsavia dalla Cecoslovacchia era il tessuto socioeconomico: paesi come Polonia, Romania, Moldavia erano pressappoco rurali, la Cecoslovacchia invece era già fortemente industrializzata; questa situazione portò all’ impossibilità di attuazione dei piani economici Sovietici, che portarono ad una gravissima crisi la già instabile Cecoslovacchia.

In effetti la Cecoslovacchia non era uno stato nazionale unitario, ma composto da due etnie principali: i cechi e gli slovacchi, con i secondi che da sempre avevano chiesto l’indipendenza.

Le circostanze e il malcontento della popolazione portarono, nel 1967, ad una crisi di governo conclusasi nel 1968 con la rimozione di Antonin Novotny come capo del governo e la successiva elezione di Alexander Dubcek come nuovo segretario del partito comunista cecoslovacco.

Il 5 gennaio del 1968 inizia per gli storici il fenomeno di liberalizzazione del paese tentato da Dubcek.

Il suo piano era quello di un “socialismo dal volto buono”, che in realtà non proponeva di allontanarsi dall’unione sovietica e di ribaltare completamente il sistema, bensì di rimanere ad un sistema economico collettivista affiancandovi maggiori libertà politiche, di espressione e di stampa. In primis Dubcek (di nazionalità slovacca) propose di dividere il paese in due enti separati: la Repubblica Ceca e la Slovacchia (praticamente l’unica delle sue riforme ancora esistente). In seguito provò ad estendere la libertà di espressione e di stampa tentando così di accelerare significativamente il processo di “destalinizzazione” che in Cecoslovacchia non era ancora del tutto avvenuto.

Tutte le sue riforme vennero supportate dalla maggioranza della popolazione, compresi gli operai che rappresentavano l’ala più radicale del partito comunista. La dirigenza Sovietica però non vide di buon occhio queste riforme, ritenendo che fossero una grave minaccia all’egemonia dell’URSS sui paesi del blocco orientale e, in ultima analisi, come una minaccia stessa alla sicurezza dell’Unione sovietica. Per comprendere i motivi di questo allarme bisogna tener presente la collocazione geografica della Cecoslovacchia, esattamente al centro dello schieramento del Patto di Varsavia: una sua eventuale defezione non poteva essere tollerata in periodo di Guerra Fredda.

Dopo il fallimento dei negoziati tra i sovietici che chiedevano di riadeguarsi agli standard dell’alleanza, e i cecoslovacchi che chiedevano più libertà, la stagione delle riforme ebbe bruscamente termine nella notte fra il 20 e il 21 agosto 1968, quando una forza stimata fra i 200.000 e i 600.000 soldati e fra 5.000 e 7.000 veicoli corazzati invase il paese, cogliendo completamente impreparato il piccolo esercito cecoslovacco ammassato sulla frontiera con la Germania Ovest. I paesi democratici dovettero limitarsi a proteste verbali, poiché era chiaro che il pericolo di confronto nucleare al tempo della Guerra Fredda suggerì ai paesi occidentali di non ingaggiare una sfida militare nell’ Europa Centrale che avrebbe aperto a scenari di guerra atomica.

Dopo l'occupazione si verificò un'ondata di emigrazione, stimata in 70.000 persone nell'immediato e di 300.000 in totale, che interessò soprattutto cittadini di elevata qualifica professionale. Gli emigranti riuscirono in gran parte ad integrarsi senza problemi nei paesi occidentali in cui si rifugiarono. La fine della Primavera di Praga aggravò la delusione di molti militanti occidentali di sinistra nei confronti delle teorie leniniste, e fu uno dei motivi della nascita delle idee eurocomuniste in seno ai partiti comunisti occidentali – con eurocomunismo si indica il progetto politico-ideologico di un marxismo intermedio al leninismo e al socialismo democratico, cioè un comunismo sviluppato in senso riformista e democratico. Fu un progetto che dal 1976 coinvolse i tre principali partiti comunisti dell'Europa occidentale: Partito Comunista Italiano (PCI), Partito Comunista Francese (PCF) e Partito Comunista di Spagna (PCE).

L'esito finale di questa evoluzione fu la dissoluzione di molti dei partiti marxisti, vent’anni dopo, con la caduta del Muro di Berlino e con la successiva evoluzione dei partiti comunisti occidentali, divenuti quasi tutti social-democratici (l’attuale corrente politica dei grandi partiti di centro-sinistra europei).


Antonio Salzano


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