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La banalità del male


È possibile che, per caso, i nostri lettori siano incorsi nell’eredità filosofica di Hannah Arendt, brillante studiosa del totalitarismo, fenomeno il quale, secondo la pensatrice, ovunque sia giunto al potere, diversamente da altre forme di oppressione politica quali la tirannide, ha creato istituzioni senza precedenti e “distrutto tutte le tradizioni sociali, giuridiche e politiche del paese” (Le origini del totalitarismo, Arendt), oltre che l’uomo stesso, privandolo di un nome, rendendolo superfluo. L’arguta Arendt, ormai nell’olimpo dei filosofi della prima metà del Novecento, assistette come inviata speciale del “New Yorker” al processo contro il funzionario nazista Adolf Eichmann (noto responsabile della deportazione di ebrei nei campi di sterminio), episodio dal quale nacquero ben cinque pubblicazioni, poi aggregate nel celeberrimo saggio filosofico che da il titolo a questo mio umilissimo tentativo di riassumerne il colossale e singolare significato.

Capitolo primo, la corte. Un’illuminante rassegna di una tragicomica schiera di personaggi: una pallida figura con il raffreddore in una gabbia di vetro, la cui mediocrità faceva a pugni con la mostruosità delle sue azioni, un primo ministro dedito a impartire una serie di ‘lezioni’ a ebrei e gentili, un pubblico ministero che, adoperando una retorica a buon mercato, getta nell’aria idee di provvidenzialismo storico a cui l’avvocato difensore, personaggio di simpatica irrilevanza, il dottor Servatius, risponde con un discorso pericolosamente simile ad una tesi antisemitica. È l’esordio di un procedimento giudiziario, giustamente conclusosi con una condanna, che si macchierà in più istanze di molteplici iperboli ed inesattezze storiche e che ignorerà un ampio numero di punti focali in merito al dramma dell’Olocausto.

Forse la più curiosa esperienza offerta dalla lettura de “La banalità del male”, è la testimonianza delle parole di un nazista dichiarante di aver vissuto conformemente a una definizione kantiana del dovere, affermazione quasi ilare per la sua totale incomprensibilità: l’etica del celebre filosofo tedesco si basa sulla facoltà di giudizio dell’uomo e poco ha a che vedere con la cieca obbedienza di cui un funzionario del Reich è il tragico emblema. Sorprendentemente, Eichmann, dinanzi alla corte, riuscì a definire quasi esattamente il concetto di imperativo categorico, ignorando di non essersi limitato ad abbandonarlo con la sua partecipazione alla soluzione finale, quanto di avere attuato, così come gran parte dei suoi simili, una vera e propria denaturazione dello stesso: “agisci come se il principio delle tue azioni fosse quello stesso del legislatore o della legge del tuo paese”, o meglio “Agisci in una maniera che il Fuhrer, se conoscesse le tue azioni, approverebbe” (Hans Frank, Die Technik des Staates) divenne la nuova parabola morale della Germania nazista, diametralmente opposta alla lezione kantiana della “Critica della ragion pratica” . La fonte di legge, che per Kant è la ragion pratica, per Eichmann divenne la volontà di Adolf Hitler, ed un cittadino ligio alla legge, non si dedicava unicamente, anima e corpo, ad obbedirle, ma anche a fare di più che la legge stessa imponesse, come se anch’esso fosse il legislatore che aveva stilato le norme che era tenuto a seguire. Non c’è ombra di dubbio: l’esperto di questioni ebraiche aveva sempre fatto il suo cupo dovere, anche quando i suoi superiori si tirarono indietro all’apprestarsi della disfatta. Non fu il fanatismo, un violento sentimento antisemita che, seppur paradossalmente, mai lo caratterizzò, a spingerlo verso quell’attitudine da burocrate eccessivamente efficiente, bensì la sua coscienza, che appariva come un contenitore vuoto: “essa era priva di un proprio linguaggio, articolava la lingua della società rispettabile” (La banalità del male, Arendt). Durante il processo, Eichmann tentò più volte di spiegare che nel Terzo Reich “le parole del Fuhrer avevano forza di legge”, dettaglio estremamente significativo: in un regime criminale, come quello nazista, la ‘bandiera nera’ dell’illegalità (figura retorica adoperata nella sentenza e ripresa dalla Arendt) sventolava su quello che, nella normalità, è un ordine legittimo, ad esempio ‘non uccidere innocenti solo perché ebrei’. È comprensibile il perché di quelle direttive e strumenti giuridici regolamentari per la messa in atto della soluzione finale, richieste dal Fuhrer stesso ad esperti giuristi: bisognava dare alla faccenda ebraica la più valida parvenza di legittimità possibile. Ed è in seguito a queste sottili argomentazioni che la grande Hannah Arendt giunge ad una triste ma esplicativa conclusione: il male, in quell’assetto totalitario, aveva perso il suo tratto distintivo, ossia la proprietà della tentazione. I tedeschi, i nazisti, dovettero imparare a resistere alla tentazione di non uccidere.

Una popolazione così colta, dedita alla musica e alla filosofia, si cibò di Sprachregelungen, elementi di ideologie acritiche ed arbitrarie, menzogne ben studiate dal vertice della piramide nazista ai fini di nascondere alle coscienze degli esecutori del genocidio l’effettivo potenziale distruttivo dei decreti hitleriani: e così gli ebrei, gli zingari e i russi divennero Untermenschen, subumani, e l’omicidio divenne “concedere una morte pietosa”, grazie ad una sapiente opera di propaganda per un programma di eutanasia, che la corte di Gerusalemme, con severo disappunto da parte dell’autrice, parve dimenticare, pur avendo a cuore la verità storica, così come lasciò al margine l’implicazione dei capi ebraici nella macchina di sterminio, aspetto cruciale per “farsi un’idea esatta del crollo morale provocato dai nazisti nella società europea (…), non solo tra i persecutori, ma anche tra le vittime”.

Quello descritto da Hannah Arendt è un male radicale perché esprime il progetto di fabbricare una nuova natura dell’uomo, privata di ogni aspetto specificamente umano e personale, ma è allo stesso tempo banale, in quanto non dipendente dalla mostruosità degli esecutori, meri, grigi burocrati in un meccanismo socio-politico distruttivo, bensì dal loro sistematico inconscio rifiuto della più peculiare caratteristica umana, il pensiero. Ed è proprio la banalità di questo male a renderlo così tremendo, in quanto perfettamente ripetibile al giorno d’oggi.



Chiara Meo

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