Everything Everywhere All at Once è suddiviso in tre parti; seguirà il medesimo schema questo articolo, che non vuole essere una recensione, ma un convinto e sentito invito alla visione.
Parte I: Tutto
Tutto. Questa è la risposta più essenziale che si può dare alla domanda: cosa troverò in Everything Everywhere All at Once ? Multiverso. Arti marziali. Crisi esistenziali. Conflitti generazionali. Lavanderie a gettoni. Bagels e perfino tasse.
Sarebbe una risposta più ampia, ma ancora telegrafica e non soddisfacente. Una storia universale costellata da una incredibile moltitudine di elementi, che balza tra dimensioni surreali e realistiche, estremamente profonde e sciocche. Una storia sull’amore (in tutte le sue forme) e sulla comprensione, che trabocca di una colossale e disarmante sincerità. Una storia che esplora concetti nichilistici, ai quali aggiunge un sonoro “allora”: se nulla di quello che facciamo ha un’importanza, “allora” l’unica cosa di cui importa è quello che facciamo!
Una risposta decisamente prolissa, ma ancora non completa.
È questo il bello: questo film fa parte della cerchia degli indescrivibili. È uno zampillante ed esilarante delirio che si alterna a momenti silenziosi e intimi, creando uno stimolantissimo contrasto.
Parte II: Vita
È un film fatto di contrasti. Visivi, stilistici, relazionali, interpersonali. Uno in particolare è quello portante: il conflitto tra Evelyn (Michelle Yeoh) e sua figlia Joy (Stephanie Hsu). Evelyn non riesce a stabilire un contatto con lei, la mansuetudine del marito Waymond (Ke Huy Quan) è diventata per lei intollerabile e, per di più, deve fare i conti con l’ispettrice delle entrate (Jamie Lee Curtis) e suo padre (James Hong) appena arrivato dalla Cina. Una vita poco entusiasmante, che nel giro di una giornata viene stravolta e trasformata in una storia effervescente, al limite della follia. È questa caratteristica la chiave di lettura, quella che dovete avere in tasca quando vi interfaccerete con uno schermo che riporta il titolo del film a caratteri cubitali. È un film da vedere quando si è pronti ad accogliere ogni scena, senza titubanze. Quando sarete pronti a commuovervi leggendo un dialogo tra due sassi, nel silenzio più assoluto della sala. Quando sarete pronti a ridere per improbabili combattimenti e citazioni.
Quando sarete pronti a godere di una esperienza, nel senso più completo del termine.
Parte III: Cerchi
È un film fatto di simboli, in particolare di cerchi. Sono dovunque: disegnati sulle ricevute, rappresentati da occhietti finti (gli adesivi con le pupille mobili) e, in modo più evidente, da un enorme bagel. Un bagel nel quale Jobu Tupaki, distruttrice di universi con la quale Evelyn dovrà fare i conti, ha inserito qualunque cosa. Qualunque cosa.
Eppure, in questo bagel gigante è presente un buco nel mezzo. Qualcosa sfugge alla forza distruttiva, qualcosa di intangibile e fugace che non può essere catturato.
Sono i momenti, le connessioni e i sentimenti che condividiamo con quelli vicini a noi.
~ B. C. A. Luongo
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