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Immagine del redattoreRedazione Sisma

Pomodori rosso sangue


Andrà tutto bene.

È stato questo il mantra del primo lockdown: una frase di speranza, una carica vitale in tempi di annichilimento dello spirito. Ci è stato detto che tutto sarebbe andato bene, e ci abbiamo creduto. Finché la pragmaticità brutale della vita ci ha assalito. Come si può chiedere di stare bene a chi ha perso il lavoro? Ci siamo rifugiati in “andrà tutto bene” quasi come un fedele in difficoltà nel proprio luogo di culto.

È difficile capire, a così poca distanza temporale, quanto questa pandemia abbia influenzato la nostra consapevolezza di individui. Invece, ora più che mai è Tangibile la disperazione di ogni lavoratore, anche di quelli che vivono nell’ignoto, vittime del caporalato.

Con il termine caporalato si fa riferimento ad una forma illegale di reclutamento ed organizzazione della manodopera ad opera di intermediari che assumono operai senza rispettare le regole di assunzione e i diritti dei lavoratori.

Si tratta di un fenomeno che solo in Italia coinvolge 400mila lavoratori agricoli, vittime inermi di un sistema indifferente. Per quanto sia stato presentato come un fenomeno che colpisce “solo” gli immigrati africani (parlandone quasi come se si trattasse di una problematica “di scarto”), la realtà è ben diversa: italiani e lavoratori dell’Est europeo sono anche loro vittime del caporalato. I lavoratori, soprattutto coloro in difficoltà giuridica a causa della mancanza di permessi di soggiorno vengono reclutati dalla figura del “caporale”. Quest’ultimo permette alla manodopera l’accesso al mercato, mettendola in contatto con l’imprenditore agricolo interessato.

I centri pubblici di collocamento sono stati smantellati negli anni, per tanto il caporale si è sostituito ad essi, non solo nel procacciare lavoro, ma anche nell’assegnare alloggi, generalmente privi di requisiti igienico-sanitari. Per farci un’idea: il 62% dei braccianti non ha accesso ai servizi igienici, il 64% all’acqua corrente, il 72% contrae malattie che prima non erano state rintracciate. Si tratta di veri e propri ghetti, baraccopoli lontane dai centri urbani: ciò contribuisce ulteriormente a rendere il bracciante dipendente dal caporale. Per una qualsiasi necessità, come andare al supermercato, andare in ospedale, ma anche recarsi nei campi di lavoro, il bracciante deve corrispondere al caporale una tassa per il trasporto. Ecco che il bracciante si trova costretto a decurtare buona parte della propria paga giornaliera. La retribuzione media si aggira infatti intorno i 3€ l’ora, quando lo stipendio minimo in Italia è di 9€.

Ma chi sono questi caporali, che lucrano dallo sfruttamento del bracciantato? Si tratta spesso di uomini appartenenti ad organizzazione criminali, definite in questo caso “agromafie”. Come sostenuto anche da Giovanni Falcone, le mafie hanno sempre avuto una profonda comprensione dei flussi economici. Il problema delle agromafie è infatti ritornato all’ordine del giorno soprattutto dopo la crisi del 2008: in un momento di debolezza del modello capitalista, le associazioni a delinquere si sono rifugiate in uno dei settori economici più sicuri. Era necessario, particolarmente in quella fase, diversificare gli investimenti così da limitare le perdite, provocando una conseguente intensificazione del caporalato. La terra è un porto sicuro e, a chi come molti di noi non ha potuto vivere la crisi del 2008 con la consapevolezza necessaria, l’esperienza della pandemia avrà aperto gli occhi. Si sono esaltate quelle figure essenziali nella nostra società, come medici e cassieri, ma anche in questo caso i contadini e braccianti hanno continuato a soffrire della negligenza collettiva. Gli stessi braccianti sono vittime inermi del Covid, in quanto, spesso, non gli vengono fornite mascherine o strumenti di protezione nei luoghi di lavoro, sono costretti a vivere in baracche sovra-abitate, e gli è negato l’accesso ad un sistema sanitario di base.

Un’economia proficua che frutta molto, circa 17 miliardi d’euro l’anno. E spesso, queste stesse “industrie”, ricevono fondi dall’UE previsti dalla Politica Agricola Comune, che appare cieca alle grida sofferenti dei lavoratori e che tutt’ora non spreca il suo tempo a controllare i curriculum delle filiere in cui investe.

Ma perché degli onesti imprenditori dovrebbero ritrovarsi a scegliere la strada dell’illegalità? La realtà è che la grande distribuzione dei supermercati fissa il prezzo del prodotto già da prima che la coltivazione sia realizzata; i prodotti italiani, in assenza di mercati locali a cui vendere, hanno come unico acquirente la grande industria, a cui è del tutto indifferente acquistare un prodotto italiano, latino-americano o egiziano. Il prezzo del prodotto deve essere quindi competitivo quanto più possibile, per sopravvivere di fronte alle realtà estere: ciò costringe il produttore ad abbassare quanto più possibile i costi di produzione. L’imprenditore, con profitti minimi, è a sua volta succube del sistema. Si tratta di una delle conseguenze di una globalizzazione che penalizza le realtà locali e che permette alle grandi industrie di gestire i mercati.

L’unico contributo concreto che possiamo offrire, oltre che nella lotta attiva al fianco dei braccianti, è quello di compiere delle scelte etiche: Yvan Sagnet, attivista e fautore della protesta bracciante negli scorsi anni, ha recentemente proposto l’introduzione di un’etichetta #NOCAP, che possa certificare un prodotto libero dalle catene del caporalato e quindi guidarci nel consumo responsabile.

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