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Pakistan: maschera violenta, volto fragile


Pakistan è il nome di un paese, è una metafora di rara bellezza. Un nome che diventa unione di popoli e culture: stan significa “terra di”, “paese dei”; mentre paki è l’acronimo formato dalle iniziali delle quattro province più importanti: Punjab, Afghania, Kashmir, Indo-Sindh.

Pak significa anche puro, e quindi il nome del paese assume il significato di “Terra dei puri”.

Ma allora perché si porta dietro macchie indelebili che fanno cadere nell’oblio questa purezza di cui troppo spesso vengono private anche le persone?

A settembre, l’ennesimo caso di stupro “collettivo” ai danni di una donna che era rimasta senza carburante in una strada fuori città; qualche giorno prima, nel sud del Paese, era stato ritrovato il corpo di una bambina di cinque anni, stuprata e poi data alle fiamme; a novembre, una donna e la figlia di quattro anni sono state violentate per due giorni da un uomo che le aveva fatto la falsa promessa di darle un lavoro… e si tratta di una minima parte delle circa cinquemila denunce annue (delle quali solo il 5% porta ad una condanna), senza contare gli innumerevoli casi non registrati. Ma la popolazione non ha resistito a colpi così violenti, subito si è accesa la polemica.

In risposta alla pressione di piazza crescente, il governo ha promesso di velocizzare il sistema giudiziario per reati di violenza sessuale: nuove misure sono state identificate dal primo ministro Imran Khan e recentemente convertite in legge dal presidente Arif Alvi.

La proposta avanzata prevede l’istituzione di tribunali speciali, per processare i casi in massimo quattro mesi, di specifici esami medici, effettuati tramite le cellule anti-stupro, che devono fornire risultati entro sei ore dalla presentazione della denuncia e la creazione di un registro nazionale dei molestatori sessuali.

Per quanto riguarda la copertura burocratica il piano non può che essere approvato, ma… la pena per chi commette il reato? Questa situazione è ben più delicata: scartata l’iniziale proposta di pena di morte tramite impiccagione, perché avrebbe incrinato i rapporti commerciali con gli stati europei, si è infine giunti a proporre la castrazione chimica.

La popolazione, così come moltissimi attivisti e organizzazioni che operano a livello globale (Amnesty International, per citarne una), si sono opposti da principio a tale soluzione giudicandola inefficace nonché un trattamento che rientra nelle categorie del crudele, inumano o degradante che il Pakistan si è impegnato a non effettuare.

D’altronde, nonostante la castrazione chimica sia un processo farmacologico che porta, per iniezione di ormoni, all’abbassamento dei livelli di testosterone nell’uomo con il conseguente calo di desiderio sessuale, è nella minor parte dei casi che gli stupri avvengano per effettiva libido. Inoltre, i farmaci impiegati non sono privi di effetti collaterali (tra i più comuni: depressione, perdita di densità ossea, aumento dei depositi di grasso, ingrossamento del seno negli uomini, perdita di peli, disturbi del fegato).

Il Pakistan è affetto da problematiche ben più gravi che si ripercuotono sul comportamento e la mentalità dei suoi cittadini: il dualismo legislativo tra sacro e laico, la radicata cultura dei clan tribali.

Purtroppo la fragilità degli organi governativi può ben poco rispetto agli estremismi religiosi ed alle tradizionali forme di giustizia dei clan, pertanto la castrazione chimica non risolverebbe il problema alla radice: basti pensare alle tante ragazze vendute dalle proprie famiglie per riparare a presunte offese o discordie familiari; infatti, a pagare il prezzo di questa “burocrazia”, sono sempre le donne. Il Pakistan è il sesto stato al mondo più pericoloso per le donne (https://poll2018.trust.org/ ), che neanche tra le mura domestiche possono sentirsi al sicuro.

Il motivo del malcontento generale, suscitato dal provvedimento proposto dal governo, è la sua superficialità: è utopico pensare che questo crimine possa non esistere, tuttavia sarebbe possibile osservare una drastica diminuzione dei numeri registrati (che non sono il totale reale!) se si diffondesse un nuovo modello di pensiero, anche attraverso l’educazione scolastica, incentrato sul dialogo e che rivaluti la figura femminile, vista ancora come un oggetto privo di volontà, sensibilità e sentimenti, e proponga soluzioni alternative alla violenza.


Libera Caramiello

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