«Per una volta vorrei possedere qualcosa interamente prima che si rompa. Faccio sempre a gara con lo sfasciacarrozze, finisco di pagare l'auto ed è già agli ultimi colpi! Queste cose le programmano: quando hai finito di pagarle sono già consumate!»
Così il protagonista di Morte di un commesso viaggiatore (1951), interpretato da Fredric March, descrive l’obsolescenza programmata, strategia economica atta a controllare la durabilità di un prodotto condizionandone il ciclo vitale.
I primi passi verso la creazione di questo sistema furono intrapresi dai principali produttori di lampadine ad incandescenza quando, nel dicembre del 1924, organizzarono un incontro segreto a Ginevra per discutere del vertiginoso calo di vendite subito quell’anno.
Bastò un solo incontro perché le parti raggiungessero un accordo. Si decise per la standardizzazione del prodotto. Le lampadine, a prescindere dal continente di appartenenza e dall’azienda produttrice, avrebbero avuto forme uguali, stessi materiali e metodi di costruzione, ma soprattutto una durata massima di mille ore. Gli stessi scienziati che per anni avevano studiato come bilanciare spessore dei filamenti e potenza per creare un prodotto quanto più longevo possibile, furono costretti ad invertire rotta, a regredire nella ricerca scientifica per il profitto economico.
Ma non era solo il profitto economico degli imprenditori ad essere messo in dubbio dal progresso tecnologico. A rischio c’erano le vite delle centinaia di migliaia di famiglie operaie che dipendevano dalla costante vendita di prodotti. A rischio c’era la stabilità della società che, in un’epoca dove le masse cominciavano a prendere atto della propria forza, vacillava, prossima alla caduta.
La classe operaia divenne dunque la più grande vittima di un sistema che aveva come obiettivo principale la sicurezza economica dei più poveri, un paradosso.
Facciamo un passo avanti, ventunesimo secolo.
Vengono ideati, creati e messi sul mercato gli smartphone che, con i computer, diventano oggetti di prima necessità, parte integrante delle vite di una buona parte della popolazione mondiale; nasce al contempo un notevole movimento di sensibilizzazione sulle tematiche ambientali.
Argomenti, questi, strettamente legati tra loro in quanto le aziende tecnologiche, applicando ai propri prodotti l’obsolescenza programmata, creano un enorme spreco di risorse il cui smaltimento risulta nella maggior parte dei casi dispendioso o impossibile. La soluzione più economica e vantaggiosa è quella di spedire i rifiuti in paesi dove le autorità non hanno mezzi adatti per opporsi. Nasce così in Africa “la più grande pattumiera tecnologica al mondo”, figlia di un’attività illegale che compromette le potenzialità e lede l’orgoglio di nazioni come Senegal, Nigeria o Ghana, dove il fenomeno è maggiormente sviluppato.
L’obsolescenza programmata è passata dall’essere considerata un sistema logorante ma necessario, all’essere vista come male della società, simbolo della prepotenza delle principali forze economiche mondiali e dell’onnipotenza che sono abilitate ad esercitare sul resto del mondo.
Alcuni governi europei, tra cui quello italiano, hanno creato disegni di legge per limitare o eliminare le azioni incriminate delle grandi aziende tech come la creazione di prodotti impossibili da riparare in autonomia o il rilascio di aggiornamenti che peggiorano il funzionamento dei device datati. Ma, vistisi ripetutamente costretti negli ultimi anni a pagare multe miliardarie, i colossi tecnologici hanno sviluppato e affinato una nuova tecnica di vendite, non più fondata sulla obsolescenza programmata della merce creata, ma sull’induzione psicologica dell’obsolescenza di un prodotto. Siamo noi consumatori a determinare la scadenza di ciò che compriamo. È il nostro innato desiderio di essere alla moda, di approvazione, la nostra paura di essere considerati diversi o inferiori, che non fa cambiare la situazione. Dal punto di vista ambientale, infatti, nonostante le limitazioni imposte, nulla è cambiato. E, come se noi non facessimo già abbastanza, siamo ulteriormente spinti all’acquisto compulsivo attraverso piccoli cambiamenti periodici, spacciati per radicale innovazione e progresso, nella linea di prodotti. Se l’anno scorso il bordo del telefono all’ultimo grido era smussato, quest’anno sarà lineare. Se l’anno scorso le colorazioni avevano sfumature opache, quest’anno avranno una colorazione luminosa e decisa.
Il tempo passa, i sistemi evolvono, ma un fattore è costante. L’essere umano riesce sempre a trovare una soluzione innovativa per superare gli ostacoli che si pongono sul suo cammino. E in cosa può essere identificato il progresso se non in questa tendenza? Ma è davvero questo il modo in cui vogliamo impiegare le nostre energie? Non è scoraggiante e controproducente sfruttare la “nostra” creatività per prendersi gioco della popolazione? Mai come in questo caso, ai posteri l’ardua sentenza.
Lorenzo Bosco
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