Nell’impero commerciale di Amazon, le consegne sono gestite da un algoritmo che impone ai dipendenti sia giornate di lavoro massacranti sia percorsi e tempi da rispettare: arrivato all’indirizzo del cliente, in cinque minuti il corriere deve trovare posto per il furgone, trovare il pacco e recapitarlo.
Di pause neanche l’ombra e invece di andare in bagno, ci si arrangia nel furgone con borse o bottiglie.
La pandemia ha enormemente incrementato il carico di lavoro, eppure, mentre la puntualità del servizio non viene intaccata, le condizioni di lavoro lasciano a desiderare: l’80% dei lavoratori è assunto a tempo determinato per mantenere alta la pressione psicologica e l’efficienza.
Se poi, nella fretta, si fa un incidente stradale, dal momento che Amazon non garantisce alcuna assicurazione Kasko, i danni non sono coperti.
Intanto, i salari insufficienti non compensano i sacrifici né tengono conto che i drivers, per terminare di consegnare i pacchi, fanno numerosi straordinari oltre le nove ore di lavoro.
Non esistono “indennità Covid” per operatività in circostanza di pandemia, né generici premi di produzione.
Inoltre, in caso di cambio d’appalto (variazione della società esterna che gestisce il servizio di logistica affidato dall’azienda committente), le condizioni di lavoro ritornano precarie.
Amazon ha raggiunto un boom di fatturato ma ha continuato a mostrare una cronica indisponibilità a contrattare le tematiche poste dalle rappresentanze dei drivers.
Pertanto, il 22 marzo scorso, i sindacati Filt Cgil, Fit Cisl e Uiltransporti hanno proclamato lo sciopero nazionale di 24 ore dei lavoratori Amazon, in nome della propria dignità e dei propri diritti.
Rossella Calce
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