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La storia dei detenuti libici


Il 17 dicembre dello scorso anno sono riusciti ad essere rimpatriati in Italia, su due navi mercantili, ben 18 pescatori di due equipaggi diversi. Dieci sono italiani, sei tunisini, due indonesiani e due senegalesi. Ma perché erano in Libia? Perché erano in detenzione da cento giorni? Tutto comincia nel 2009, quando entra in atto un concordato tra Libia e Turchia che estendeva la cosiddetta “zona economica esclusiva”, cioè, il divieto di pesca per gli stranieri dalle 12 miglia (limite delle acque territoriali del paese) a ben 74 miglia dalle coste libiche. Alcuni dati pubblicati dal giornale “The Guardian” rivelano come, negli ultimi venticinque anni, oltre cinquanta barche siano state sequestrate e due confiscate dalla Libia, ma anche 30 pescatori italiani sono stati arrestati. Nel 2011 la morte del dittatore Gheddafi fa sprofondare la Libia in una continua guerra civile tra molte fazioni, che per ora non ha ancora “vincitori”, nonostante alcune potenze mondiali si siano schierate dall’una o da un'altra parte: le due fazioni belligeranti più in vista sono quelle dei generali Haftar e Sarraj che governano la Cirenaica e Tripolitania, in contrapposizione tra di loro.

Eppure Haftar si è fatto una “brutta reputazione” in materia di traffico di migranti, detenuti e in generale delle violazioni dei diritti umani; proprio le milizie del generale in questione hanno sequestrato i pescatori e li hanno arrestati con l‘accusa, del tutto infondata, di traffico di stupefacenti. Ora, raccontiamo con ordine l’odissea dei pescatori provenienti dall’Italia, che sono stati in mani libiche dal primo di settembre 2020: il caso fece molto discutere poiché dal 16 settembre alla fine di novembre né ci furono telefonate né giunsero notizie dai detenuti italiani, perciò i familiari fecero numerose manifestazioni sia a Mazara del Vallo che a Roma, nonché appelli al governo che non stava affrontando in maniera sufficientemente seria la questione. Il culmine della vicenda arrivò quando si scoprì che persino un cacciatorpediniere italiano era passato in quella zona, ma non era intervenuto; così, in un certo senso, questa prolungata prigionia fu motivo di imbarazzo per il ministero degli esteri, che non riusciva a confrontarsi fermamente con Haftar.

Per fortuna dopo lunghe trattative la Farnesina e l’agenzia informazioni sicurezza esterna riuscirono a mediare per la liberazione dei pescatori, senza però assecondare le richieste di scarcerazione degli scafisti comandate da Haftar.

I pescatori sono tornati in Italia il 18 dicembre, dopo mesi di prigionia, con grande contentezza del presidente del consiglio Conte e del ministro degli esteri di Maio. Dunque sembra essere calato il sipario su questa storia, tuttavia resta un interrogativo: cosa è successo ai pescatori durante la prigionia libica? Per quanto i diretti interessati non abbiano svelato i particolari della vicenda e neanche i parenti abbiano avuto loro notizie per mesi, possiamo soltanto immaginare cosa possa essergli accaduto, basandoci sui trattamenti “standard” nelle carceri libiche. Amnesty International ha numerose volte denunciato violazioni dei diritti umani da parte delle milizie di Haftar: infatti, in un rapporto del 2016, si sottolineano le diverse violazioni nelle carceri, nelle quali si vive spesso in condizioni precarie, ammassati e persino torturati dai carcerieri che, talvolta, non mancano di macchiarsi di gravi abusi di potere nei confronti dei detenuti, specialmente se questi sono immigrati di colore oppure donne, alle quali è spesso fatta violenza. Come molti regimi, la Libia rifiuta il riconoscimento dei diritti umani o ne giustifica, in maniera squallida, le violazioni.


Alessio Castaldi

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