In tutte le classifiche delle organizzazioni più autorevoli, come Amnesty International o Human Rights Watch, la Corea del Nord è sempre ultima riguardo i diritti umani (più precisamente 167esima su 167 paesi esaminati): questo triste traguardo è raggiunto notoriamente nelle stime in merito alla libertà di stampa o di parola e nel campo delle elezioni libere. L’osservatorio dei diritti umani dell’ONU si è interessato alle dinamiche della Corea del Nord, ascoltando disertori e altri ex cittadini: oramai, l’Organizzazione delle Nazioni Unite detiene le fonti necessarie per denunciare le “sistematiche violazioni dei diritti umani” che si verificano sul territorio nazionale; nonostante ciò, è quasi impossibile avviare un profondo mutamento in questo regime.
Andiamo per ordine. La repubblica democratica di Corea è formalmente uno stato socialista, ma nella realtà è un regime totalitario governato dalla “dinastia” dei Kim. Sempre in teoria, la Corea del Nord ha una costituzione che sancisce i diritti umani fondamentali, tuttavia questi principi di diritto internazionale vengono quotidianamente ignorati. Cominciamo a parlare delle violazioni delle libertà civili, in primo luogo dei diritti dei lavoratori: l’unico sindacato in Corea del Nord è quello statale pro-governativo, infatti i nordcoreani non partecipano alle unioni sindacali internazionali. Sul lavoro mancano dispositivi di sicurezza e gli incidenti sono all’ordine del giorno, i turni sono disumani e non di rado i datori effettuano violenza psicologica o molestie sulle loro dipendenti. Esistono diverse reti televisive e giornali, ma tutti sono propagandistici e subordinati all’autorità del partito ed esaltano la “juche”, cioè l’ideologia nordcoreana: molti enti internazionali hanno dunque denunciato la mancanza di libertà di stampa in quanto, nel caso si distribuiscano altri giornali o si abbia accesso a canali televisivi o radiofonici esteri, si commette un reato punibile con la fucilazione. Nel paese, costituzionalmente, vige la libertà di culto ma le minoranze cattoliche o buddiste vengono perseguitate e deportate in campi di concentramento. Lo stato si vanta di garantire approvvigionamento di cibo e copertura sanitaria, ma molti disertori raccontano come questi siano un lusso per pochi: una persona su otto è infatti malnutrita. Altra privazione è quella della libertà di circolazione, sia all’interno che all’esterno del paese: chi tenta l’emigrazione illegale o cerca di entrare nella capitale, dove c’è un tenore di vita più alto, è condannato a morte o deportato nei campi di lavoro forzato. La pena capitale è una realtà drammatica in Corea del Nord: la condanna a morte è molto diffusa sia per reati comuni come vandalismo, spaccio o violenze, ma anche per qualsiasi reato politico, ed è pubblica, sommaria, si somministra, senza previo processo, tramite fucilazioni collettive, a tutti i maggiori di 16 anni. Infine è doveroso evidenziare le brutalità che si consumano nei campi di concentramento nordcoreani: essi sono sparpagliati in tutto il territorio e ospitano in tutto dagli 80000 ai 120000 reclusi e vengono chiamati “kwallisso”. In essi i prigionieri politici, insieme a mogli e figli, vivono ammassati in celle piccolissime, devono sottostare a condizioni di lavoro schiaviste, e ogni trasgressione può essere punita con omissione di razioni, torture disumane di ogni specie o fucilazione. Invece, se un recluso è fedele, farà da carceriere agli altri. Il quadro generale presentato, ricostruito grazie alle testimonianze, viene smentito sistematicamente dal governo, che rifiuta ogni accusa di violazione dei diritti umani.
Alessio Castaldi
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