Giulio Regeni, un dottorando italiano dell'Università di Cambridge, si era trasferito in Egitto nel settembre del 2015 per compiere delle ricerche per la propria tesi sui sindacati indipendenti egiziani. Precedentemente aveva scritto alcuni articoli su Il Manifesto, usando uno pseudonimo, riguardanti la situazione sociale dell’Egitto, riferita soprattutto alle condizioni dei sindacati e alle limitazioni imposte dal nuovo governo di Abdel Fattah al Sisi.
Il ricercatore fu rapito il 25 gennaio 2016, giorno del quinto anniversario delle proteste di piazza Tahrir che avevano dato inizio alla rivolta del popolo egiziano contro il regime del Presidente Mubarak, che portò alla sua successiva deposizione. Il 3 febbraio Regeni fu trovato senza vita ai bordi di un’autostrada nelle vicinanze di una prigione dei servizi segreti egiziani. Le condizioni del corpo mostrarono evidenti segni di tortura: bruciature di sigarette, denti rotti e ossa fratturate.
L'omicidio di Giulio Regeni ha dato vita in tutto il mondo ad un acceso dibattito politico sui depistaggi eseguiti dai servizi di sicurezza del governo egiziano e sul loro possibile coinvolgimento nella vicenda. Tali sospetti hanno portato a forti tensioni diplomatiche tra il nostro Paese e l'Egitto, pur non avendo dato luogo ad una vera e propria rottura delle relazioni come auspicato da una parte dell’opinione pubblica.
Premesso che l’Italia e l’Egitto hanno avviato autonomamente delle indagini sulla vicenda, nel novembre 2020 la Procura di Roma era pronta a chiuderle a carico di quattro appartenenti ai servizi segreti egiziani accusati del sequestro, ma il procuratore generale egiziano ha avanzato riserve sulla solidità del quadro probatorio, ritenuto costituito da prove insufficienti per sostenere l'accusa in giudizio. In particolare, il procuratore Hamada al Sawi ha comunicato di avere raccolto prove sufficienti nei confronti di una banda criminale accusata di furto aggravato degli effetti di Regeni, rinvenuti nell'abitazione dei membri della banda assieme a documenti contraffatti intestati a membri delle forze dell'ordine. È evidente il differente punto di vista delle due procure: quella italiana ritiene che ci sia stato un coinvolgimento dello Stato Egiziano tramite i suoi organi, mentre quella egiziana minimizza l’accaduto considerandolo solo un atto di criminalità comune, precisando, implicitamente, che il coinvolgimento delle autorità locali è solo apparente a causa dell’uso di documenti falsi da parte dei reali esecutori dell’omicidio.
Nonostante le resistenze del governo egiziano, il 10 dicembre la procura di Roma ha chiuso le indagini sulla morte del ricercatore ed ha chiesto di processare quattro agenti delle forze di sicurezza egiziane. Il processo avverrà quindi in assenza degli imputati che, se fossero condannati, dovrebbero essere condotti in Italia per scontare la pena. Viste le premesse è facile prevedere che difficilmente il Governo Egiziano concederà l’estradizione.
Questa è la prima indagine giudiziaria completa sul presunto uso della detenzione segreta da parte dei servizi di sicurezza egiziani di cui sono state vittime migliaia di egiziani dopo la rivoluzione.
La Procura di Roma attraverso delle ricostruzioni da testimonianze oculari, tabulati telefonici ed altre prove ha accertato che il Maggiore Sharif appartenente al NSA (Agenzia per la sicurezza nazionale Egiziana, vale a dire i servizi segreti del Paese), ha guidato l’operazione contro Regeni. Probabilmente le autorità egiziane, che sorvegliavano da tempo i sindacati indipendenti a causa della loro partecipazione nel rovesciamento di Mubarak, in base ad una registrazione in loro possesso in cui Regeni si era offerto di aiutare il sindacato ad ottenere un contributo economico da un’ONG britannica hanno ritenuto che volesse finanziare una rivoluzione.
Anche se quanto ipotizzato dovesse essere vero, l’orribile crimine commesso contro Regeni non sarebbe comunque giustificabile: una tortura straziante durata molti giorni era stata inflitta ad un giovane che ammanettato giaceva a terra, con il corpo scarno e debole, marchiato per le tante violenze subite e per il lungo digiuno.
Le grida disperate e i discorsi sconnessi nella stanza numero 13, dove il giovane 28enne è stato torturato incessantemente ed infine ucciso con un brutale colpo alla nuca, pesano come un macigno sulla comunità internazionale che continua a non condannare fermamente paesi in cui è ancora praticata la tortura.
A cura di Beatrice Zoccolillo
Fonti: Internazionale nr. 1389 del 18.12.2020
La Repubblica del 30.11.2020
Wikipedia “omicidio di Giulio Regeni”
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