Capita sentir dire: “Meglio morire che vivere così!”.
Questa frase è riferita alle persone gravemente malate, con patologie irreversibili e afflitte da dolori insopportabili. Proprio loro non sono libere di scegliere fino a che punto vivere la loro condizione di sofferenza; non hanno diritto all’aiuto medico per avere una morte volontaria o all’aiuto per un suicidio assistito. Per questo motivo il tema del fine vita continua a far discutere visto che in Italia la normativa è carente e incerta rispetto ad altri paesi come Svizzera, Belgio, Olanda, Spagna, Canada e molti stati degli Stati Uniti.
Il Codice penale italiano vieta e punisce l’omicidio del consenziente (articolo 579) e l’aiuto o l’istigazione al suicidio (articolo 580).
Piergiorgio Welby, poeta, scrittore e giornalista, nel 2002 fu il primo grande caso che fece discutere il paese sul delicatissimo tema del fine vita. Era affetto da distrofia muscolare progressiva che gli impedì gradualmente di camminare, parlare e compiere movimenti mantenendo sempre la lucidità mentale. Welby iniziò a raccontare la sua situazione e a chiedere una nuova legge sull’eutanasia. Morì il 20 dicembre 2006 al seguito del distacco del respiratore artificiale, dopo che gli furono somministrati sedativi; l’anestesista che lo aiutò fu poi assolto.
Un altro caso simbolo, della lotta per la libertà di scegliere come e quando concludere la propria vita, è quello del dj Fabo. Rimasto tetraplegico in seguito ad un incidente stradale, scelse di morire con il suicidio assistito in una clinica svizzera il 27 febbraio 2017.
La persona che lo accompagnò alla clinica si autodenunciò e in seguito fu assolto dall’accusa di aiuto al suicidio. Nel 2019 la Corte costituzionale stabilì in una sentenza storica sul caso di dj Fabo che aiutare qualcuno a ricorrere al suicidio medicalmente assistito non è più un reato qualora tale persona sia:
1. tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale;
2. affetta da una patologia irreversibile;
3. affetta da sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili;
4. pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli.
Il caso più recente sulla base di questa sentenza è quello di Mario che, paralizzato da undici anni a causa di un’incidente stradale, ha ottenuto legalmente il diritto al suicidio assistito. L’ASL locale di appartenenza prende tempo e chiede il parere all’avvocatura riguardo il farmaco letale da preparare. Dopo un anno di attesa sembra tutto fermo e Mario chiede che non gli venga negato questo diritto.
Il Parlamento ha rinviato a data da destinarsi la discussione della legge sul suicidio assistito e i tentativi di intervenire corrono su più fronti. Da una parte c’è il referendum e la prossima primavera, se ci sarà l’approvazione della Corte costituzionale, si voterà per l’eutanasia legale. Questo referendum si pone l’obiettivo di introdurre l’eutanasia legale tramite l’abrogazione parziale dell’articolo 579.
Dall’altro lato in Parlamento è iniziato l’iter di approvazione del testo base adottato in commissione sul fine vita. Mentre il Parlamento sta intervenendo sul suicidio assistito, il referendum vuole che si intervenga sull’eutanasia attiva; quindi, il progetto di legge e il referendum non trattano lo stesso tema.
Il diritto alla vita e alla libertà, sancito dall’articolo 3 della Dichiarazione universale dei Diritti umani, serve anche per poter realizzare un percorso di vita “degna”; proprio per questo dobbiamo essere liberi di decidere fino alla fine sulla nostra vita. La medicina deve lasciare che la vita faccia il suo corso e garantire che il passaggio avvenga nel migliore dei modi, salvaguardando la dignità della persona malata. È importante consentire la possibilità di scegliere un fine vita consapevole e controllato alle persone malate, le quali necessitano di un aiuto esterno per porre fine alle proprie sofferenze.
Elisabetta Vecchione
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