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Diagnosi di tumori ai tempi del Covid-19: quantifichiamo i danni.


Le difficoltà di questo ultimo anno non sono da attribuirsi soltanto dal Sars-Cov-2 in sé: difatti, tutte le restrizioni ed i provvedimenti che la situazione implicava hanno colpito, in maniera più o meno grave, ogni ambito della nostra realtà.

Tralasciando il settore economico, le cui profonde ferite più difficilmente si rimargineranno, i danni hanno investito, in larga parte, il settore sanitario. Perché? Semplice: l’attenzione rivolta al virus ha messo in secondo piano altre patologie altrettanto gravi, se non anche di più.

I reparti di oncologia, ad esempio, hanno registrato molti meno ricoveri quest’anno e sarebbe bello, ma utopistico, poter dire che il calo nei dati corrisponda ad una riduzione del numero di ammalati. Purtroppo la situazione è ben diversa: gli ospedali sono stati il luogo più “evitato” nel corso dell’ultimo anno, sia per timore di contrarre la malattia, sia perché alcune strutture, a causa delle estese esigenze legate alla situazione pandemica emergenziale, non hanno potuto ospitare pazienti richiedenti differenti tipologie di assistenza medica.

Analisi, diagnosi, screening e qualunque altro tipo di controllo preventivo, e non solo, sono stati effettuati molto meno frequentemente, ma, ripetiamo, non si pensi ad una reale diminuzione dell’incidenza di patologie oncologiche.

Norman E. Sharpless, Direttore del National Cancer Institute (NCI), nell’editoriale pubblicato su Science parla così:

“I modelli sull’effetto del Covid-19 sugli screening oncologici e sul trattamento dei tumori del seno e del colon-retto (che complessivamente ammontano a circa un sesto di tutte le morti per cancro), nella prossima decade suggeriscono all’incirca 10.000 morti in eccedenza per tumore del seno e del colon-retto, che è pari all’1% di aumento dei decessi per queste tipologie di tumori in un periodo in cui si stimano quasi 1.000.000 di morti per questi due tipi di cancro. Il numero di morti in eccedenza per anno potrebbe raggiungere il picco nel prossimo biennio. Questa analisi è conservativa, perché non considera altre tipologie di tumore, l’ulteriore morbilità non letale dovuta al ritardo nella stadiazione, e presume una moderata interruzione dell’assistenza che si risolverà completamente in 6 mesi. Non prende in considerazione, inoltre, le differenze regionali in risposta alla pandemia, questi effetti infatti potrebbero essere meno gravi in zone del Paese con lockdown più brevi o meno rigorosi”.

(Fonte: Science 19 Jun 2020: Vol. 368, Issue 6497, pp. 1290 DOI: 10.1126/science.abd3377)

L’intervista suggerisce che la posticipazione nella diagnosi di un tumore influenzerà inevitabilmente la prognosi della malattia, naturalmente in maniera negativa.

Si consideri, inoltre, che la chiusura delle attività correlata alla pandemia, ha interessato anche importanti centri di ricerca nel campo interessato e solo recentemente è stata possibile la riapertura di alcuni di essi.

Di certo la procedura è stata necessaria, ma ignorare troppo a lungo le “situazioni non-Covid-19” è ugualmente inaccettabile e si rischia di aggravare ulteriormente la crisi di un settore che, in Italia, non funziona come dovrebbe.


Libera Caramiello

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